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Stefcarotenu

Stefano Carotenuto
Italia
  • 2019-05-31 12:00
  • Italia

«La macchina fotografica mi ha salvato»

di maurizio fiorino

Ha proprio la faccia da napoletano, penso, non appena Stefano mi compare davanti.

Eccolo, il «one-handed street photographer», ovvero il fotografo di strada con una mano sola (così si presen- ta sui social). È alla guida della sua automobile, «sali, dài!» mi invita, «oggi andiamo a fare un po’ di fotografie a Bacoli con Michele Liberti, il mio mentore. Guido piano, non preoccuparti».

Stefano Carotenuto, classe 1984, si è avvicinato alla fotografia da pochi anni. Nel frattempo i suoi scatti sono stati esposti a San Francisco, Londra e poi a Bari, e qualche mese fa Martin Parr, celeberrimo fotografo della Magnum, ne ha scelto uno per un concorso. «Una bella soddisfazione» dice Stefano. «Ho iniziato a scattare al posto che fare psicoterapia. Quando la mia ragazza e i miei amici sono andati via dalla città, mi sono chiesto: cosa faccio, mi piango addosso o reagisco? La fotografia mi ha scelto, anzi mi è caduta addosso, come diceva Marco Pesaresi, un grande fotografo di Rimini che amo e che purtroppo è morto troppo presto».

Il Punto di Forza

Disabile dalla nascita, a un certo punto Stefano ha deciso di fare di una mancanza il suo punto di forza.

«Non so nemmeno com’è la vita con due mani. Le cose che ritengo importanti sono sempre riuscito a farle, ma è in quelle piccole che c’è differenza: tipo allacciarsi le scarpe. Impa- rare a guidare invece è stato facile, così come giocare alla PlayStation. Ci gioco, eh! E anche molto bene». Le sue immagini raccontano Napoli in maniera anarchica e irriverente, una città ricca di luce ma anche di ombre. Immagini in cui si percepiscono le influenze di quelli che Stefano considera i suoi maestri: William Eggleston e Alex Webb per il colore e la composizione, Elliot Erwitt per l’umori- smo, Daido Moriyama per il bianco e nero più crudo e infine «il mio preferito in assoluto: Joel Meyerowitz. Completo su ogni fronte, un dio sceso in terra».

Con Napoli, il posto in cui è nato, ha un rapporto di amore e odio. «Mi rendo conto che è una scuola unica al mondo. Qui trovi personaggi e scene che in altri posti neanche esistono, e poi c’è questo alternarsi tra sacro e profano che mi stimola tantissimo.

Io sono ateo eppure amo il rapporto dei napoletani con le credenze religiose». Intorno alla fine del 2016, Stefano inizia a gironzolare nei vicoli disordinati con la macchina fotografica appesa al collo. Comincia a scattare le processioni, la gente sul lungomare, le strade, e a mostrare i tanti controsensi di una città vista centinaia di volte e in tutte le salse, eppure ogni volta nuova. «I miei soggetti preferiti sono quelli che ho più difficoltà a fotografare, ovvero le persone. Se ci presti attenzione, nelle mie foto è molto raro che riesca a puntare l’obbiettivo in faccia a qualcuno perché sono io il primo che fa fatica a farlo». Gli chiedo se gli piacerebbe essere più sfrontato e lui, senza esitare, risponde: «Se lo fossi il mio modo di fotografare cambierebbe. La mia unica preoccupazione è quella di arrivare a fine giornata portando a casa la “foto giusta”». E qual è, gli domando, la foto giusta? «Quella che all’impatto, senza l’aiuto di didascalie o spiegazioni, ti dà un pugno o una carezza sul volto, a seconda delle sensazioni che ti fa provare. Ce ne sono poche, ma quando succede è stupendo».

Il suo viaggio, metaforico e non, l’ha portato a varcare i confini degli Stati Uniti. Ha visitato San Francisco, Houston e New York, dove la street photography ha messo le sue radici più in profondità. Ed è proprio nella Grande Mela che Stefano ha iniziato a vedere con occhi nuovi. «New York è letteralmente un mondo a parte all’interno del pianeta che conosciamo. Scene e situazioni si susseguono lasciandoti di sasso. È una città che fotograficamente sovrasta, quasi ti blocca». Ci tornerà quest’estate, «anche se ora come ora andrei ovunque nel mondo, da Est a Ovest. Se proprio dovessi scegliere, vorrei continuare ad approfondire l’America, magari quella del Sud. Ma ho anche il pallino dell’Australia, da quando ho scoperto e amato il lavoro di Trent Parke».

Fotografare all’estero, per lui, è stato quasi come farlo a casa. «Certo, lavorare nei posti che si conoscono vuol dire conoscere per l’appunto i luoghi e la relativa luce a seconda dell’orario e della stagione. A Spaccanapoli, per dirne una, puoi trovare un’ottima luce che dura pochissimo a seconda dei mesi dell’anno, e saperlo in anticipo ti permette di pro- grammare le uscite al meglio. Di contro, scattare sempre nello stesso luogo stanca. La motivazione e la gioia che hai nel visitare nuovi posti, specie lontani dalla tua cultura, gioca ovviamente a favore del processo creativo. In ogni caso, se siamo qui, è per merito suo» conclude, indicando l’uomo che ha accanto.

Michele Liberti è un’istituzione della fotografia partenopea e membro del Collettivo Spontanea. Lui e Stefano si sono incontrati qualche mese fa e da quel giorno sono diventati inseparabili. Battono la città in lungo e in largo con le loro macchine fotografiche puntate addosso a qualsiasi cosa stuzzichi il loro interesse. «Street photographer? Mah, io mi considero più un “fotografo da passeggio”» dice Michele, «anche perché fotografo di strada può significare tutto e il contrario di tutto».

«Conoscevo le sue foto, finché un giorno l’ho incontrato. Ci siamo presi un caffè e da allora siamo diventati amici» racconta Stefano. «Anche io ho iniziato a fotografare come terapia» prosegue Michele. «Ho cresciuto due figli da solo e ogni giorno mi obbligavo a uscire di casa a respirare. Due ore tutte per me. Invece di andare al cinema o uscire coi miei amici, mettevo la macchina al collo e passeggiavo. Per questo mi definisco un fotografo da passeggio. Negli anni Ottanta scattavo i miei figli per sfizio, poi ho iniziato a farlo seriamente. A un certo punto, però, ho dovuto scegliere: o la famiglia o la fotografia. Ho scelto la prima, e non ho scattato per 15 anni. Ho ripreso solamente nel 2007 e da allora non ho più smesso».

Michele ha vissuto sulla sua pelle il passaggio tra pellicola e digitale. «Già il fatto di vedere all’istante la foto appena fatta, piuttosto che aspettare lo sviluppo, è una differenza abissale. Un conto è scattare la foto e svilupparla, per poi magari dire: bella cagata. Un altro è farne cento di fila, a raffica. Ci credo che così esce “la” foto. Con la pellicola devi essere un cecchino». Anche Stefano è d’accordo: «Al momento fotografo sia in digitale sia col rullino, usando una vecchia Leica. Per me è importante che la macchina fotografica sia leggera, altrimenti le immagini vengono mosse. Ma se devo scegliere dico rullino. Sono un eterno indeciso e, quando faccio più scatti della stessa scena, al momento della scelta finale impazzisco… Meglio la pellicola: quello che fai quello è».

Per me una fotografiaè tale se pone domande, se riesce a interessare chi la guarda» riflette ad alta voce Liberti. Per Stefano invece è «la capacità di emozionare gli altri. Io lo faccio attraverso la «luce: se la giornata è uggiosa, non esco neanche. La fotografia di strada mi ha sempre attirato ma mi spaventa anche: il paesaggio è immobile, mica si muove o ti aggredisce, la strada invece sì. Non mi è mai successo e probabilmente mai accadrà, però sai, il fotografo di strada ha sempre questa paura. Che poi, la prima cosa che la gente nota di me è che mi manca una mano. Quando realizza che ho una macchina fotografica, ho già portato a casa lo scatto che volevo». «Essere un fotografo significa soprattutto correre dei rischi. Se non vuoi correrli, vuol dire che non vuoi essere un fotografo» conclude senza giri di parole Michele.

C’è ancora tempo per fare un’ultima domanda a Stefano: come ti vedi, gli chiedo, da qui a dieci anni? Lui mi risponde col candore di un adolescente al primo giorno di liceo. «Di certo avrò la macchina fotografica al collo. Se esco di casa senza vado in tilt, perché penso che succederà qualcosa e che me la perderò» risponde. «La fotografia mi ha salvato, mi ha riempito l’esistenza. È diventata una missione di vita. Se tu adesso mi chiedessi come sto, ti risponderei che sono felice».

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